venerdì 15 novembre 2013

'o Gegante 'e Palazze

Statua de " 'O Gegante 'e Palazze "

IL monumento della statua del Gigante di Palazzo non è altro che, la gigantesca statua di Giove ritrovata a Cuma.
Il Gigante di palazzo è un enorme busto marmoreo, originariamente consacrato al culto di Giove, che fu  rinvenuto in località Masseria del Gigante durante gli scavi del Capitolium a Cuma e che data la sua maestosità si attribui dedicato a un Dio e si credette fosse Giove il più grande degli dei..
La grandiosa opera marmorea, dopo il suo ritrovamento nel 1668 per volere dell'allora Viceré di Napoli don Pietro Antonio d'Aragona, fu collocata  in cima alla salita che dalla darsena immetteva in Largo di Palazzo, ovvero nell'attuale Piazza del Plebiscito.
 

L'enorme busto marmoreo, dal nome che gli venne dal popolo, come " 'O Gegante 'E Palazzo" fu per Napoli ben presto e per centotrentotto anni quello che la statua di Pasquino fu per Roma e il Gobbo di Rialto per Venezia, ovvero il sito, dove si apponevano le cosiddette pasquinate, (satire in versi e in prosa contro le ingiustizie provocate delle autorità costituite).        Satire, scritte da ingegni occulti e mani misteriose, che le affiggevano, sfidando nelle notti oscure i posti di guardia, che vi presidevono per scoprire i colpevoli.
Il primo che fu preso di mira dalla pasquinate napoletane apposte sotto la statua del gigante di Palazzo, fu lo stesso don Pietro Antonio d'Aragona, ma chi dette fama  involontariamente al celebre   Gigante di Napoli in tutta Europa fu Luis de la Cerda, duca di Medinaceli, che giunto come viceré nel 1695 pensò bene di scoprire che fossero i vergatori della spietata satira antigovernativa e per questo mise una taglia di 8.000 scudi d'oro a chi avesse fornito notizie utili all'arresto degli autori. L'effetto della taglia fu che si trovò, il giorno successivo, un foglio affisso ai piedi del Gigante, in cui veniva offerto come risposta invece di 8.000, ben 80.000 scudi d'oro a chi portasse la testa del viceré in piazza del Mercato.

Ai viceré austriaci, non andò meglio, anzi la satira fu più feroce, si ricorda la pasquinata rivolta al conte Alois Thomas Raimund di Harrach, nel 1730, trovata sul marmoreo busto a lui indirizzato un couplet , cioe versi rimati che ancora oggi leggibili su banchi e su pareti, scritti dai ragazzi come arma innocua nel rapporto di potere contro il mondo adulto, o ripetuti con delizia dai bambini nelle complicità socializzanti della fase anale.

«Neh che ffa 'o conte d'Harraca?
Magna, bbeve e ppò va caca».
L'ignoto e ingenuo vergatore,  compendiava nella quotidiana soddisfacibilità di tre primari bisogni personali le uniche preoccupazioni "politiche" del conte d'Harraca.
Infine prima di essere rimossa la statua dalla piazza per volontà del sovrano francese, Re Giuseppe Napoleone, quando lasciò Napoli, perchè mal sopportava quella satira insopportabile alla sua persona, si trovò l'indomani seguente  il "trasloco"  del Gigante dalla piazza alle scuderie di Palazzo reale. una scritto dove  pareva che erano riportate sul busto le ultime volontà del vecchio Giove, che dicevano: «Lascio la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai Ministri, lo stomaco ai Ciambellani, le gambe ai Generali e tutto il resto a re Giuseppe». E tutti compresero quale altra "parte" riservasse argutamente al Re Bonaparte.
 
Originale della statua di Giove Capitolino di Cuma
in primo momento collocato accanto a Palazzo Reale
Attualmente il Gigante si trova al Museo Archeologico Nazionale 




In realtà il Gigante è un torso acrolito, il che significa che braccia e gambe furono ricostruite posticciamente, quando fu deciso all'epoca di posizionarlo accanto a Palazzo Reale. Attualmente il Gigante si trova al Museo Archeologico Nazionale 
 Oltre al torso acrolito di Giove, furono ritrovati durante gli scavi a Cuma anche i busti di Giunone e di Minerva in siti e tempi diversi. Essi sono adesso conservati in qualche scantinato del Museo archeologico di Napoli, ma c'è chi giura che giacciano, tra la polvere e l'oblio, in una rimessa del Museo di Capodimonte.

Questo è la fine che facciamo fare del nostro patrimonio storico culturale della nostra città.

domenica 10 novembre 2013

il brigante di chiaiano



Da fanciullino nelle passeggiate, che facevamo nelle calde giornate estive,, durante l’estate chiaianese, insieme ai miei coetanei negli anni del dopoguerra, guidate dalle assistenti, (giovanette reclutate tra le giovani dell’Associazione cattolica locale, le signorine, Melina Pennino e Teresenella ‘e ncopp’ ‘o barone - alias Maione Teresa), sotto l’egida delle colonie estive per i ragazzi, (indette dalla parrocchia di San Nicola di Bari a Polvica e finanziate con i soldi, che attraverso la Pontificia Assistenza e, per conto dell’ERP - Ente della Ricostruzione Europea, furono stanziati dal Piano Marshal americano), per far trascorrere il periodo estivo ai molti ragazzi, che altrimenti sarebbero vissuti per strada, come tanti Lazzari. 
La maggior parte della giornata della cosiddetta colonia estiva si trascorreva negli spazi contigui della chiesa o facendo nella mattinata lunghe passeggiate nella vicina Selva o meglio (dint’ ‘a Severa) percorrendo Via Croce, 
Via Margherita, lo spiazzale della Saurella e poi scendevamo ancora per la discesa della terricciolla ‘e Zi-Matalena, costeggiando la grande Cava profonda circa 100 metri, (o’ Monte de’ cane), un baratro che dai bordo non si vedeva il fondo.
La denominazione di monte era l’antico nome delle cave, (da cui si estraeva il tufo) e dopo aver costeggiato il baratro, ci immettevamo nella strada sterrata, detta (Mieze ‘e tre vie), ombrosa per alcuni tratti per i lunghi rami degli alberi di castagno, che la coprivano, in modo da farla apparire quasi un tunnel. Ricordo che spesso ci fermavamo nei pressi del (’O Monte do’ Brigante), anch’essa una grande Cava, che a noi ragazzi appariva come una grossa Spelonca, perforata nella roccia della collinetta sovrastante. A quei tempi le cave si facevano al chiuso, dove si estraevano pietre di tufo giallo, e solitamente poi erano utilizzate per rifugi durante i mesi invernali, quando si verificavano abbondanti piogge e per l’altro validissimo motivo, quello di lasciare il bosco circostante rigoglioso di castagneti e per far continuare alla flora e alla fauna locale il loro ciclo vitale.
Quella grossa spelonca c’era indicata come “la Grotta del Brigante”, qualcuno per sentito dire, affermava che ci avesse soggiornato il brigante Musolino, e, noi ragazzi lo confondevamo con Mussolini, il dittatore fascista, per il fatto che ancora se ne sentiva parlare nelle nostre famiglie, si era appena negli anni cinquanta.
Solo ora, dopo aver raggiunto sessanta e più anni, sono venuto a conoscenza di chi veramente c’è vissuto in quel nascosto ricovero, divenuto famoso negli anni, appena, dopo l’unità d’Italia, poiché ospitò i patrioti del disciolto esercito borbonico, (i cosiddetti Briganti) che lì trovarono rifugio sottraendosi alle rappresaglie sabaude, indette dal generale Cialdini per volere dell’usurpatore Piemontese, il savoiardo Vittorio Emanuele II-
Chi  era in verità il Brigante della Selva di Chiaiano?
ll brigante della Selva di Chiaiano, è subito svelato :
Era un certo, Alfonso Cerullo, il capo banda di un manipolo di uomini, circa una cinquantina ed in seguito un centinaio, ex soldati del disciolto esercito borbonico, che, non volendo sottostare alle vessatorie condizioni di resa di Gaeta, (siglate da Re delle Due Sicilie, Francesco II, alias Francischiello ed il Generale Cialdini, per conto del re sabaudo, Vittorio Emanuele II), si dettero alla macchia, altrimenti sarebbero stati rinchiusi nelle galere, sparse in tutto il territorio Italiano, specie in quello piemontese, che erano dei veri lager, come quelli, che divennero famosi, le famigerate “Finestrelle”, dove, che, se non si faceva atto di sottomissione alla sovranità ed alla sudditanza alla casa Savoia, si veniva massacrati senza pietà.

Alfonso Cerullo, nacque  nelle fertili campagne di Marano di Napoli nel 1837 da padre contadino, Cerullo Salvatore, e da Angelamaria Napolano, casalinga.
Si arruolò giovanissimo nella Reale Gendarmeria Borbonica a cavallo, che aveva compiti d'ordine pubblico, forza armata della giustizia e vigilanza e sicurezza del territorio, ed all’età di ventisette anni rivestì il grado di caporale, che assolse con perizia e carisma, tanto che dopo la capitolazione di Gaeta, con il suo reparto, che era di stanza nella regione Abruzzi, ripiegò a Cisterna e da lì si diede alla macchia, non volendo sfruttare l’opportunità avuta di continuare il servizio militare nell’esercito di un nuovo Sovrano, di un altro Re.
Tornato nella sua Marano e conosciuto un sostenitore del deposto Regime, un certo Macedonio di Maria, che esercitava il mestiere di sarto e che asseriva che Re, Francesco II, sarebbe ritornato presto al suo posto, si fece convincere da quest’ultimo ad organizzare una rivolta per resistere all’esercito occupante piemontese.
Una prima banda di circa venti uomini a cavallo, il Cerullo la raggruppò fra gli ex soldati sbandati del circondario dei casali del Nord di Napoli, rimasti fedeli al loro giuramento e nostalgici del regno borbonico, e con essa iniziò a depredare i posti della guardia nazionale di Marianella, di Polvica, di Mugnano, prendendo i fucili e abbattendo lo stemma dei Savoia e distruggendo i ritratti di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi.
Per rendere più clamorose le sue sortite, obbligava agli uomini di guardia dei presidi, che sorprendeva di gridare :“ Viva Francesco II e Maria Sofia, i veri reali di Napoli”
Questi inaspettati attacchi alle caserme ed ai presidi del disciolto Reale Corpo dei Carabinieri, che nel 24 gennaio del 1861 si trasformò in Arma dei Carabinieri, dislocati nel territorio, resero necessaria l’istituzione di un tour de fource, di più uomini, costituito dalla Guardia Nazionale in collaborazione con reparti speciali di Bersaglieri e di soldati della Guardia Mobile per setacciare il Nord di Napoli, operava la banda Cerullo.

Più che un Brigante, il nostro Alfonso Cerullo, era un autentico partigiano borbonico, tanto che osò sfidare l’esercito piemontese con un manipolo di compagni, innalzando su un albero nel bosco della collina dell’Eremo Camaldolese il Vessillo Gigliato dell’antico Regno, donatogli da alcuni affiliati, che l’avevano requisito ad abili tessitrici mugnanesi, e tanto era grande, che era ben visibile dai paesi sottostanti della collina.
Terminate le proficue incursioni nelle varie masserie della zona, si rifugiava nella Selva di Chiaiano, nella famosa Grotta del Brigante, antica cava ben nascosta dalla folta vegetazione, per sfuggire ad un’eventuale cattura e da cui poi ripartiva per altre e nuove scorribande per procacciarsi viveri e vettovagliamenti per la sua banda.
La banda del Cerullo era anche in contatto con altri gruppi di briganti, anch’essi operanti nell’entroterra della Provincia di Napoli, come quella di Crescenzo de Matteo nel aversano, la banda di Salvatore Reppe nella zona di Qualiano Quarto, la banda di Salvatore D’Alterio detto “‘o Squarcione” in quella di Giugliano e tanti altri gruppi e tutti insieme formavano il comitato insurrezionale dell’area nord di Napoli, che aveva come disegno strategico militare, il ritorno, appena possibile, del Re Borbone.
Queste bande Partigiane Borboniche divennero padroni incontrastati del territorio e spaziavano dai Camaldoli al Lago di Patria fino a Soccavo e Pianura e per il numero sempre crescente d'esse, costrinsero a Vittorio Emanuele II, ad ordinare al Generale Cialdini di procedere ad una massiccia repressione.
Si misero taglie sulla testa dei più noti capibanda e così iniziò una vera caccia ai cosiddetti briganti di casa nostra. Scesero in campo circa cinquemila uomini armati per stanarli oltre alle forze locali ed ai carabinieri.
Il nostro eroe, Alfonso Cerullo, fu preso nei pressi della Taverna del Portone, vicino al posto di Dogana al Furlone sulla Strada Santa Maria a Cubito, tradito da un certo Lucchesi Michele, la sera del 28 novembre del 1864.
Interrogato l’indomani, il 29 novembre 1864, dall’Ispettore Federico Sbarri della Questura di Napoli, com'è riportato dallo storico maranese Barberi nel suo libro, (il Cerullo “giustificò la sua ribellione, non volendo sottostare al nuovo regime e dichiarò che non si era mai macchiato né lui, né i componenti della sua banda, di nessun crimine, specie ,quello addebitatogli, dell’assassinio del carabiniere Maurizio Gorelli, avvenuto il 16 maggio 1863, che gli era attribuito, dichiarando altre sì che non si era mai scontrato con l’arma, anzi la rispettava, essendo stato lui stesso un gendarme per il passato).
Con un processo sommario fu richiuso in Castel Capuano e dovette scontare una pena di 25 anni di galera. Scontata la pena all’età di 53 anni il 29 marzo del 1890 morì a Marano.
Alfonso Cerullo, esempio di uomo leale, rispettoso del giuramento fatto al suo Re, fu per più di un secolo dimenticato, e poiché la storia, molto spesso la fanno i vincitori, fu facile per i conquistatori piemontesi (passati alla storia come i liberatori del Regno delle Due Sicilie) decretare il nostro eroe e tanti altri martiri, che si batterono contro la tirannia savoiarda per difendere la loro patria nel rispetto delle proprie idee, dei briganti malfattori, coprendoli d’ignominie