lunedì 18 febbraio 2008

'E Dolce Speciale de' Spitale 'e Napule


‘E Dolce speciale de’ Spitale ‘e Napule



Ogni ospedale napoletano, traendo origine da vecchi conventi od antichi monasteri, fu gestito da vari ordini monastici, fino a che non è stato introdotto il sistema Sanitario Nazionale.
Tra gli ordini più famosi, v’erano le cosiddette Figlie Della Carità: suore vestite di blu con un ampio copricapo bianco.
ritratto di suora appartente all'ordine delle  "figlie della CARITà "






Tali suore, dedite soprattutto all’assistenza dei degenti, apparivano un pilastro solido della buona sanità, e rappresentavano la nervatura portante di ogni nosocomio per tutto ciò che significava pulizia, ordine, rispetto, efficienza ed umanità, come era richiesto dai quei luoghi di sofferenza .
In alcuni di essi, specie in quelli, che recavano il nome di un santo o di una santa, le monache avevano l’abitudine di preparare un dolce ed un pranzo particolare, nel giorno dedicato al santo a cui l’ospedale era intitolato, per poi offrirlo agli infermi e degenti dello stesso nosocomio.
E’ un’abitudine che è diventata tradizione, in alcuni casi ed in tempi recenti invece del tipico dolce dell’ospedale si ricorre alla distribuzione di una normale sfogliatella.
I più noti dolci preparati dalle monache ospedaliere, furono :

‘O Dolce ‘e San Gennaro, noto come o Biscotto all’uovo e limone:
Era preparato e distribuito agli infermi il 19 settembre d’ogni anno il giorno di San Gennaro nell’omonimo ospedale, che è situato nel quartiere della Sanità, dove una volta era ubicata l’antica valle degli Eunostidi, (sacerdoti greci, detti vergini, poiché avevano fatto voto di castità), ora conosciuto come “ ‘O Spitale ‘e San Gennaro ‘e Povere” .



 Il dolce di san Gennaro ( noto anche come 'e struffele 'e san gennaro)




(Il dolce consisteva in un biscotto, proveniente da un composto fatto da uova, zucchero, limone, farina e cannella, sbattuto come fosse uno zabaione e cotto al forno a fuoco lento, ed era un dolce molto soffice tanto da poter essere mangiato anche da chi era senza denti).


‘O Dolce ‘e l’Annunziata,
noto come " ‘a Torta alla Ricotta":
Una porzioncina di tale dolce era dato ad ogni bambino nel giorno dell’annunciazione dalle suore della Carità, che gestivano la casa dell’Annunziata, le quali erano dedite alla cura dei bambini esposti, detti così, perché abbandonati e posti nella famosa Ruota, situata fuori della chiesa dell’Annunziata, nei pressi del
quartiere di Forcella.



La torta di ricotta ( 'o meglio  " Il dolce dell'Annunziata, l'ospedale")


(Il dolce consisteva in una torta alla ricotta, preparata con questi ingredienti: uova, burro, zucchero, farina, latte, ricotta, cannella e vaniglia.
La preparazione consisteva nel fare prima una sfoglia con la pasta frolla molto sottile, che era preparata con un uovo intero e due rossi e circa un etto di burro, farina e latte, poi foderare con la sfoglia ottenuta un tegame largo e basso e cospargerlo di uno strato di ricotta fresca condita con zucchero , rossi d’uovo cannella e vaniglia ed infine infornare il tutto a fuoco basso).

‘O Dolce ‘e Santa Maria Egiziaca
, noto come ‘Pane Uvetta:
Dolce preparato dalle monache del monastero di S. Maria Egiziaca a Forcella, che gestivano anche l’ospizio della pietà del vecchio ospedale di " S. Eligio", rifugio di bisognosi e derelitti, e veniva distribuito in occasione della festa dedicata
alla santa il 2 aprile.



Dolce noto come "pane uvetta "
( dolce preparato nel monastero di S. Maria Egiziaca a Forcella


(Il dolce, noto anche come “Pane Uvetta”, era una sorta di focaccia, preparata con: panini raffermi, latte, burro, uova, limone, uvetta, zucchero, vaniglia e cannella. La preparazione consisteva nel tagliare due panini e metterli poi a bagno in un bicchiere di latte, contemporaneamente si preparavano altri due panini raffermi e li si rosolava nel burro. Unendo poi i panini ammorbiditi nel latte e quelli fatti rosolare nel burro ed inzuppati con uova intere, con l’aggiunta di buccia grattugiata di un limone e due etti d'uvetta, fatta rinvenire in un poco d’acqua tiepida ed infine facendo insaporire il tutto con zucchero vaniglia ed un pizzico di cannella in polvere.
L’impasto così ottenuto, dopo essere stato avvolto in un tovagliolo pulito, umettato di burro, veniva legato ben stretto attorno al pane d’uva e lo s’immergeva in una pentola d’acqua in bollore, lasciandolo cuocere per circa mezz’ora.

‘O Dolce ‘e Santa Maria del Popolo
, noto come " ‘e Tisichelle":
Questo dolce, dedicato a del convento  Santa Maria del Popolo, (compatrono di Napoli , che è venerata nella chiesa facente parte del complesso ospedaliero degli Incurabili, voluto dalla nobildonna Maria Lorenza Longo nel 1522, per sciogliere il voto fatto alla Madonna, che se fosse guarita dalla malattia, “ il Mal Francese (la sifilide)”, cont
ratta nel contagio di una vita spensierata e dedita alla più sfrenata seduzione), è preparato e distribuito il 12 settembre dalle monache alle inferme ed era denominato“ ‘e Tisichelle” forse in allusione allo stato della malattia a quell’epoca inguaribile.


'e tesechelle, biscotti tipo ameretto farciti spesso da pinoli
 Dolce offerto dalle suore del convento di S. Maria del popolo ( Gli incurabili)




I suoi ingredienti ricordano i biscotti amaretti e sono: la farina, lo zucchero, il vino bianco ed i pinoli e si presentano come delle palline zuccherate farcite da pinoli.
‘O Dolce Pellegrino,
noto come ‘e Pellerini:
Dolce che veniva offerto dalle monache dell’Arciconfraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini, che gestivano la benefica opera detta dei pellegrini, ricevuta in eredità dal suo istitutore, il canonico napoletano Cesare Mariconda, dopo la sua morte, ed attendevano al mantenimento dell’ospedale annesso, dove si praticavano cure immediate e gratuite ad infermi in genere od a partorienti indigenti, aiutate nell’arduo compito da eminenti chirurghi e levatrici.
Il Dolce Pellegrino
aveva come ingredienti: rossi d’uovo, zucchero, arancia o limone, vaniglia, latte e bicarbonato d’ammonio.




Il dolce speciale dell'ospedale Pellegrini  " ' e pellerine"
(dell'arciconfraternità della Santissima Trinità dei Pellegrini)



La preparazione dell’impasto del dolce si ottiene da sei rossi d’uova, da un chilo di zucchero, da tre etti di burro sciolto in poco latte e dopo avervi grattugiato una buccia di arancia o di limone ed un po’ di vaniglia e farina quanto basta, dopo di ché si aggiungevano 15 grammi di bicarbonato di ammonio e si spalmava sulla sfoglia così ottenuta fino a renderla sottile e liscia, dello zucchero a velo ed infine veniva tagliuzzata in pezzettini, che venivano posti su una lastra unta ed infarinata per la cottura in forno a fuoco medio per circa mezz’ora. Quando acquistavano un bel color oro erano pronti ‘ e pellerini.
‘O Dolce Loreto, noto come ‘o Loretino:
Era un dolce che preparavano le suore dell’Ospedale di Santa Maria di Loreto, che gestivano in un primo momento un conservatorio, che ospitava fanciulli poveri e poi nel 1834 un ospedale, per curare gli ammalati del Real Albergo dei poveri e degli altri ospizi napoletani.
Il dolce consisteva in uno sformato dorato di un contenuto amalgamato in una ciotola, dove si era versato del latte, del burro, miele, farina, un uovo sbattuto, la buccia grattugiata di un limone ed un cucchiaio di bicarbonato, cotto in un forno ben caldo.




Il dolce dell'ospedale Si S. maria del Loreto chiamato " 'o Loretino"



  
 Da quando non ci sono più le suore pasticciere, si continua la tradizione di offrire il giorno dell'onomastico del santoil pasticcino, solo che per non complicarsi la vita si offrono per tutti la famosa  " sfogliatella "



  



 La prossima volta ci saranno i dolci  di napoli

lunedì 11 febbraio 2008

'A Sciorta 'e Maria Vrenna


‘A Sciorta ‘e Maria Vrenna


(La fortuna di Maria di Brienne)



‘A Sciorta ‘e Maria Vrenna è un detto napoletano, per scongiurare la cattiva sorte, alla stregua della Contessa di Lecce, (nata a Lecce il 1367), che sposando il nobile Raimondo Orsini De Balzo, divenne anche Principessa di Taranto e di Brindisi, titoli che aggiunse a quello di Contessa di Brienne, che aveva ereditato dalla zia Isabella, sorella del padre Giovanni d’Enghien.
Ebbe quattro figli, Maria, Caterina, Gianni Antonio e Gabriele. Nel 1406 a soli 39 anni e dopo un matrimonio felice, rimase vedova e suo malgrado convolò a seconde nozze con il RE di Napoli dell’epoca, Ladislao I d’Angiò, detto il Magnanimo, sia per porre fine alla sanguinosa guerra che stava combattendo contro di lui, che assediava le sue terre, sia perché fu allettata dalla diplomazia nemica che le proponeva di porre fine ai combattimenti, in cambio di un trono, quello del Regno di Napoli.


Ritratto di Maria d'Enghien, contessa di Brienne
principessa di Taranto e Brindisi
Divenne Regina di Napoli , sposando il Re Ladislao I d'Angiò
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Ambiziosa e desiderosa di diventare Regina, accettò l’offerta e le nozze furono veloci e sfarzosissime e si celebrarono nel principesco Castello Aragonese, nella cappella di San Leonardo a Taranto.
Giunta a Napoli, fu bene accolta dal popolo, anche perché si prodigò per aiutare i poveri ed i meno abbienti, facendo costruire ospizi e conventi e riordinare le attività economiche ed amministrative, emanare vari editti, giacché il marito era dedito principalmente a guerreggiare,  per coronare il suo ambizioso progetto di unificazione dell’intera penisola italiana.
I rapporti con il marito non furono dei più sereni e ben presto precipitarono, anche perché Ladislao la costringeva a vivere a fianco delle sue molteplici amanti.



Ritratto del Re Ladislao I d'Angiò



Questo sconcio e gli stessi rapporti tormentosi tra i due, terminarono il 6 agosto del 1414, quando il buon Ladislao aveva appena 38 anni e si affermava che fosse morto a seguito di una malattia, contratta nell’espugnare Perugia. In realtà, morì d'avvelenamento con un colorito aneddoto, riportato da un autore napoletano dell’epoca, che descrisse l’accaduto come un’imprudenza del Sovrano, che pur facendo assaggiare ogni cosa, che ingeriva, prima agli assaggiatori di corte, non fu attento e né prese nessuna precauzione con il sesso femminile.
La leggenda dice che un medico di Perugia, padre di una sua amante, spalmò sul sesso della figlia un veleno, facendo credere a quest’ultima, che la pomata servisse a stregare il suo amante regale.
Rimasta vedova e non avendo avuto eredi da Ladislao, fu deposta dalla cognata, Giovanna II, cui spettava il Regno e fu dalla stessa crudelmente imprigionata in Castel dell’Ovo e liberata in tarda età, perché malata.
Si spense nella sua terra, dopo aver perduto ogni titolo nobiliare a Taranto nel 1446.



E' una curiosità storica che insegna tante cose:
L'ambizione porta a volte a fare una brutta fine;
Non esiste un mortale superiore,  onnipotente,
perchè esiste anche l'imponderabilità e l'imprevedibilità.

lunedì 4 febbraio 2008

'O Pazzariello

‘O Pazzariello è un mestiere, che veniva esercitato a Napoli negli anni che vanno dalla fine del ‘700, per tutto l ’800 e fimo agli anni 50 del ‘900.
‘O Pazzariello era un mestiere ambulante, saltuario e l’esercitava chi senza un lavoro, pur di guadagnare quel poco per vivere o per arrotondare, si vestiva bizzarramente con abiti del tipo da Generale Borbonico, (ossia indossava una marsina con bordi argentati, una camicia con svolazzi nascosta da un panciotto di color rosso fuoco, da brache colorate a strisce bianche e nere, che a mezza gamba poggiavano su calzettoni, color rosa, sgargianti, calzava, poi, scarpe con ghette e per copricapo portava una feluca inghirlandata e per darsi un po’ di tono sul petto della marsina aveva appuntato patacche senza valore, come fregi.)
‘O Pazzariello si presentava in pubblico impugnando in una mano un bastone dorato e nell’altra, bene in vista,  un fiasco di vino, o altri prodotti di prima necessità (pane, pasta) che andava pubblicizzando per conto di unanuova “Cantina” (Osteria) o di una nuova "Puteca" (negozio alimentare).
In realtà il vecchio Pazzariello fu l’antesignano degli attuali imbonitori pubblicitari e si può definire un banditore, che, vestito di variopinte uniformi, per le vie della città informava il popolo dell’apertura di nuovi negozi recitando e cantando filastrocche, accompagnato da una sua piccola banda di suonatori, generalmente, un tamburino, un putipù, uno scetavajasse  e un triccheballacche.


Totò che interpetra il Pazzariello nel film l'oro di Napoli
                                                    



Per avere una idea precisa chi era ‘O Pazzariello, basta vedere o rivedere il film ideato da Vittorio De Sica, che trasse dal libro del grande scrittore MarottaL’oro di Napoli”, dove il personaggio del Pazzariello fu interpretato magistralmente da quell’artista che fu Antonio De Curtis, in arte (Totò).
Oggi lo si può ancora incontrare non più come banditore di prodotti, ma come una sorta di posteggiatore, quale questuante, che appare in estate, di sera, nei ristoranti all’aperto di piazza Sannanzaro o nei pressi degli chalet del lungomare di Mergellina, offrendo agli avventori qualche filastrocca in cambio di qualche moneta.
La tradizione vuole che il mestiere veniva tramandato da padre in figlio, poiché ‘o pazzariello oltre a saper recitare e cantare doveva anche saper ballare al ritmo della musica, che emetteva la sua banda,

 Strumenti tipici popolari 
Scetavajasse, Triccheballacche, Putipù


Tammorra  (tamburello con sonaghi)
Tamburello da accompagnamento ad  un Pazzariello






composta dai suonatori di Putipù, Triccheballacche, Scetavajasse, e tammore, ritmati dal suono di un tamburello.
Alcuni di essi si possono incontrare nelle feste paesane e s’improvvisano in venditori d’asta di prodotti, messi all’asta, ricevuti come doni da contadini o dai negozi della zona, per incrementare l’entrate degli organizzatori della festa o della sagra (i cosiddetti Maste ’e Festa).
Ma quando in napoletano si dice “chille è pazzariello” sta a significare che è un burlone, è scherzevole, è un festevole a cui piace scherzare e far sorridere

sabato 2 febbraio 2008

'O Patanare


‘O Patanare in italiano è il Patataio. Venditore ambulante di patate.
Patanaro  ( Patataio) di altri tempi.

 Un tempo girava per le strade ed i vicoli di Napoli a piedi con un sacco a tracolla pieno di patate o girava con un asino con una soma carica di tale ortaggi, appena estirpati dal terreno e andava vendendole al grido:
“Patane a ‘nu chile tri sorde!” (Traduz. = patate un chilo tre soldi)
“Patane janche e grosse “ (Traduz. = patate bianche e grosse)
“Patane, me parene muzzarelle” (Traduz. = patate mi sembrano mozzarelle)
“Tenghe ‘e Patane pe’ panzarotte” (Traduz. = ho le patate per fare i panzarotti)
“ Acalate ‘o panare! Gente – gè…!, cinque chile ‘e patane ‘na lire!

(Traduz. = Abbassate il paniere! Gente…! 5 kg. Di patate una lira)
‘O patanare ambulante ogni giorno riusciva a venderle tutte, in seguito, con l’aiuto di un carrettino trainato da un asinello, aggiunse alla sua offerta di patate anche i piselli nel periodo della loro crescita.
Ai tempi nostri 'O patanare, lo si può incontrare con il suo triciclo o con un camion agli angoli delle strade nei pressi dei mercati od all’uscita delle autostrade o tangenziali e offre il suo prodotto, (‘e patane) in sacchetti da tre o cinque chili al prezzo di due o tre Euri.


'A Patana è un ortaggio originario del Cile, in Europa giunse nel 1500 ad opera dei Carmelitani Scalzi e si diffuse soprattutto cotto o lessato, divenendo il pranzo indispensabile per i meno abbienti, fritto poi è divenuto una leccornia per grandi e bambini (le patatine fritte).



Pasta e patate alla napoletana





                                                        

‘E Patane a Napoli sono utilizzate in cucina sia per preparare un bel primo piatto (‘a Pasta e patane)


pasta e patate con aggiunta di pomodori




                                              

 un connubio saporitissimo, se cucinato con l’aggiunta di qualche pomodoro e scaglie o croste di parmigiano ed un gambo di sedano.
Una specialità tutta napoletana è un bel timpallo di patate, (il Gattò)

                                                      

per ottenerlo occorre prima lessare, poi sbucciare e schiacciare le patate per ottenere l’impasto, che deve contenere incorporato del burro, dell’ uova, del parmigiano, qualche pezzo di provolone piccante, alcuni pezzetti di salame, del prezzemolo, sale e pepe ed infine una quantità di latte sufficiente per renderlo morbido..In un tegame unto e dopo averlo cosparso di pangrattato si cuoce al forno l’impasto, così ottenuto, spolverizzandolo ancora di pangrattato, per bel 45 minuti finché si formi una crosticina dorata.

                                                             

Le patate, sono infine l’ingrediente principale per i famosi panzarotte. (le crocchette di patate)