Capitolo Sesto
Chiaiano dopo l’unità d’Italia
Fino a che non fu costruita la Strada Provinciale Santa Maria a Cubito, il comune di "Chiaiano ed uniti" era considerato solo un borgo agricolo attraverso il quale si accedeva alla capitale del regno, Napoli, per andare a vendere i prodotti agricoli ed altre mercanzie, trasportate da villici, sia del borgo medesimo, che quelli dei vicini comuni della zona nord, Mugnano, Marano, Calvizzano.
Il viaggio avveniva attraverso viuzze, percorse da carri e carretti, a piedi col barroccio, od in groppa ad un asino, ad un mulo od ad un cavallo facendo frequenti soste presso taverne, ubicate lungo il percorso, (la più nota era “ Taverna del Portone " al Furlone) giacché il viaggio, per raggiungere il centro, era lungo, tortuoso e stancante.
. Verso la metà dell’Ottocento, le stesse vie per giungere a Napoli, iniziarono ad essere solcate da qualche diligenza per i signori padroni o dagli sciaraballi (carri senza copertura con posti a sedere fatti con panche di legno) per i meno abbienti, contadini, plebei, artigiani e spaccapietre.
La Strada S. Maria a Cubito fu progettata ed ultimata per interessamento dei Re Borboni, quale prosecuzione verso nord dell’avvenuta costruzione del Corso Amedeo di Savoia (prima noto come Corso Napoleone, voluto da Re Gioacchino Murat nel 1807 per giungere da piazza de Plebiscito alla Reggia di Capodimonte), che terminava all’altezza del bosco e proseguiva scendendo verso i casali di Miano - Piscinola e congiungendosi a quello di Secondigliano per poi arrivare attraverso Melito ad Aversa, a Capua e infine a Roma.
Il viaggio avveniva attraverso viuzze, percorse da carri e carretti, a piedi col barroccio, od in groppa ad un asino, ad un mulo od ad un cavallo facendo frequenti soste presso taverne, ubicate lungo il percorso, (la più nota era “ Taverna del Portone " al Furlone) giacché il viaggio, per raggiungere il centro, era lungo, tortuoso e stancante.
. Verso la metà dell’Ottocento, le stesse vie per giungere a Napoli, iniziarono ad essere solcate da qualche diligenza per i signori padroni o dagli sciaraballi (carri senza copertura con posti a sedere fatti con panche di legno) per i meno abbienti, contadini, plebei, artigiani e spaccapietre.
La Strada S. Maria a Cubito fu progettata ed ultimata per interessamento dei Re Borboni, quale prosecuzione verso nord dell’avvenuta costruzione del Corso Amedeo di Savoia (prima noto come Corso Napoleone, voluto da Re Gioacchino Murat nel 1807 per giungere da piazza de Plebiscito alla Reggia di Capodimonte), che terminava all’altezza del bosco e proseguiva scendendo verso i casali di Miano - Piscinola e congiungendosi a quello di Secondigliano per poi arrivare attraverso Melito ad Aversa, a Capua e infine a Roma.
Tratto della Via s.Maria a Cubito dal Bosco di capodimonte fino a Chiaiano |
La sua inaugurazione avvenne nel 1861, quando ormai era già stata proclamata l'Unità d'Italia, misurava 30 Km, ed aveva 40 ponti, iniziava dal Garittone e terminava a Sessa Aurunca come indica la storia del tracciato riportata, in latino, su un marmo a forma di edicola, che tutt’ora si può ammirare sul muro di fronte al Deposito del Garittone dell’ A.N.M. (ex A.T.A.N.) dove è riportato quanto segue :
Via nuova san Rocco a Capodimonte ( tratto di fronte il deposito ex ATAN, il Garittone) in curva è posta su muro l'edicola marmorea |
Deposito tranviario di Capodimonte detto " Garittone" |
Di fronte al deposito tranviario di Capodimonte, detto Garittone, esiste un edicola marmorea costruita nel muro di una antica villa dove è riportata una targa commemorativa dell'apertura della strada:
Targa commemorativa dell'apertura della S. Maria a Cubito |
VIAM HEINC AD MONTEM USQUE
DRAGONIS PAR MILLE PASS - XXV CUM
TRIENTE ET CASCANUM
APUD SESSAM
PER XXX PASSUUM MILLIA
STRATAM ABSOLUTAMQUE.
ANNO MDCCCLXI
VIATOR VIDES
QUAE
PONTIBUS ARCUATIS XXXX INTERIECTIS
COMMODO PUB INSIGNI
VIAS VIII COMMUNES APTE SECAT
PARS OPERIS COSPICUA
AQUOR COERCITIONES ALVEI
INFER – VOLTURNI
QUAE SUBFECIT ANTE AEQUORA CAMPI
LATE PASSUM DABANT
La traduzione letterale dell’epigrafe sta a significare che fu posta per ricordare:
Questa Via che va da Capodimonte
fino a Mondragone per circa 25 Km.
e giunge a Cascano presso Sessa Aurunca.
Per 30 miglia è una strada lastricata perfettamente completa.
Nell’anno 1861 -
O Viandante - vedi (osserva che)
Furono edificati 40 ponti arcuati ad intervalli per adattare il terreno d'attraversamento per farne un tragitto di pubblica utilità,
unendo otto Comuni
ed intersecandoli convenientemente per una cospicua parte.
Sono state imprigionate le acque dell’alveo inferiore del Volturno
rendendo quei terreni acquitrinosi una perfetta pianura.
La denominazione di questa strada sarebbe derivata per la presenza di un'antica chiesuola di campagna, a cui fu dato il nome di S. Maria a Cubito, perché si vuole che durante una battuta di caccia in quella zona Carlo II, Re di Napoli, e noto anche, Carlo il saggio ) nel 1297 venne a conoscenza che suo zio Ludovico, meglio conosciuto come San Ludovico d'Angiò, morto trenta anni prima, era stato canonizzato per divenire poi “ San Ludovico dei Francesi” e per la somma gioia CUBAVIT SE (s’inginocchiò, o si prostrò) e baciò la terra della chiesetta. (aneddoto riportato dallo studioso D. Chianese nel suo famoso libro “ I casali antichi di Napoli “). è dal momento si denominò " la Chiesa di Santa Maria a Cubavit, e poi in S. Maria a Cubito.
Attualmente ha preso vari nomi nel tratto cittadino dei quartieri di Napoli, che attraversa. Nel tratto da Capodimonte a San Rocco, si chiama "Via nuova San Rocco ". Dal Furlone lambendo Marianella fino a Chiaiano si chiama Via Emilio Scaglione. Dall'incrocio di Via G. Antonio Campamo fino all'altezza del Bivio di Mugnano, riprende il suo nome originale Via S. Maria a cubito, mentre ,quando attraversa il corso principale di Marano, prende il nome di Corso Europa.
E' denominata ancora strada provinciale S. Maria a Cubito, quando collega attraversandoli molti comuni della Zona Nord, quali ( Calvizzano, Villaricca, Giugliano, Qualiano, Villa Literno e Cascano di Sessa Aurunca).
Capitolo Settimo
Il BRIGANTAGGIO A CHIAIANO
la selva di Chiaiano ( zona si accesso da Via Pendino) |
Da fanciullino nelle passeggiate durante l’estate chiaianese insieme ai miei coetanei negli anni del dopoguerra, guidate dalle assistenti, (reclutate tra le giovani dell’Associazione cattolica locale, le signorine, Melina Pennino e Teresenella ‘e copp’ ‘o barone, Teresa Maione), che facevamo nelle calde giornate estive, sotto l’egida delle colonie per i ragazzi, (indette dalla parrocchia di San Nicola di Bari a Polvica e finanziate con i soldi, che attraverso la Pontificia Assistenza e per conto dell’ERP(Ente della Ricostruzione Europea, furono stanziati dal Piano Marshal americano), per far trascorrere il periodo estivo ai molti ragazzi, che altrimenti sarebbero vissuti per strada, come tanti lazzari. Procacciatore di quest'iniziativa assistenziale fu il sacerdote pro tempore della parrocchia, don Angelo Ferrillo. La maggior parte della giornata della cosiddetta colonia si trascorreva negli spazi contigui della chiesa o facendo nella mattinata lunghe passeggiate nella vicina Selva o meglio (dint’ ‘a Severa) percorrendo Via Croce, Via Margherita, lo spiazzale della Saurella e poi scendevamo ancora per la discesa della terricciolla ‘e Zi-Matalena , costeggiando la grande Cava profonda circa 100 metri, (o’ Monte de’ cane) e ci immettevamo nella strada sterrata, detta (Mieze ‘e tre vie), ombrosa per alcuni tratti per i lunghi rami degli alberi di castagno, che la coprivano, in modo da farla apparire quasi un tunnel. Ricordo che spesso ci fermavamo nei pressi del
(’O Monte do’ Brigante), anch’essa una grande Cava, che a noi ragazzi appariva come una grossa Spelonca, perforata nella roccia della collinetta sovrastante.
A quei tempi le cave si facevano al chiuso, dove si estraevano pietre di tufo giallo, e solitamente poi erano utilizzate per rifugi durante i mesi invernali, quando avvenivano abbondanti piogge e per l’altro validissimo motivo, quello di lasciare il bosco circostante rigoglioso di castagneti e per far continuare alla flora e alla fauna locale il loro ciclo vitale.
Quella grossa spelonca c’era indicata come “la Grotta del Brigante”, qualcuno per sentito dire, affermava che ci avesse soggiornato il brigante Musolino, e, noi ragazzi lo confondevamo con Mussolini, il dittatore fascista, per il fatto che ancora se ne sentiva parlare nelle nostre famiglie, si era negli anni cinquanta.
Solo ora, dopo aver raggiunto sessanta anni, sono venuto a conoscenza di chi veramente c’è vissuto in quel nascosto ricovero, divenuto famoso negli anni appena dopo l’unità d’Italia, poiché ospitò i patrioti del disciolto esercito borbonico, (i cosiddetti Briganti) che lì trovarono rifugio sottraendosi alle rappresaglie sabaude, indette dal generale Cialdini per volere dell’usurpatore Piemontese, il savoiardo Vittorio Emanuele II-
Di ciò che andrò a narrare e confermato dai racconti citati nel libro “I figli della Selva” scritto dal Generale Giovanni Baiano, parlando della grotta del brigante con aneddoti raccontatogli dal proprio nonno, Vicienzo ‘o Vurpiciello, che in quei luoghi visse dal 1880 al 1957, ed anche se non li conobbe personalmente, delle sue gesta sicuramente ne sentì parlare e tramdandò ai figli ed ai nipoti la storia degli abitanti della Grotta del Brigante della Selva di Chiaiano,e dallo storico Maranese, Domenico Barberi nel suo libro “il Brigantaggio post-unitario a Nord di Napoli” e riportato nei suoi scritti storici sugli antichi casali del nord di Napoli di Carmine Cecere.
(’O Monte do’ Brigante), anch’essa una grande Cava, che a noi ragazzi appariva come una grossa Spelonca, perforata nella roccia della collinetta sovrastante.
A quei tempi le cave si facevano al chiuso, dove si estraevano pietre di tufo giallo, e solitamente poi erano utilizzate per rifugi durante i mesi invernali, quando avvenivano abbondanti piogge e per l’altro validissimo motivo, quello di lasciare il bosco circostante rigoglioso di castagneti e per far continuare alla flora e alla fauna locale il loro ciclo vitale.
Quella grossa spelonca c’era indicata come “la Grotta del Brigante”, qualcuno per sentito dire, affermava che ci avesse soggiornato il brigante Musolino, e, noi ragazzi lo confondevamo con Mussolini, il dittatore fascista, per il fatto che ancora se ne sentiva parlare nelle nostre famiglie, si era negli anni cinquanta.
LA GROTTA DEL BRIGANTE A CHIAIANO |
Solo ora, dopo aver raggiunto sessanta anni, sono venuto a conoscenza di chi veramente c’è vissuto in quel nascosto ricovero, divenuto famoso negli anni appena dopo l’unità d’Italia, poiché ospitò i patrioti del disciolto esercito borbonico, (i cosiddetti Briganti) che lì trovarono rifugio sottraendosi alle rappresaglie sabaude, indette dal generale Cialdini per volere dell’usurpatore Piemontese, il savoiardo Vittorio Emanuele II-
Di ciò che andrò a narrare e confermato dai racconti citati nel libro “I figli della Selva” scritto dal Generale Giovanni Baiano, parlando della grotta del brigante con aneddoti raccontatogli dal proprio nonno, Vicienzo ‘o Vurpiciello, che in quei luoghi visse dal 1880 al 1957, ed anche se non li conobbe personalmente, delle sue gesta sicuramente ne sentì parlare e tramdandò ai figli ed ai nipoti la storia degli abitanti della Grotta del Brigante della Selva di Chiaiano,e dallo storico Maranese, Domenico Barberi nel suo libro “il Brigantaggio post-unitario a Nord di Napoli” e riportato nei suoi scritti storici sugli antichi casali del nord di Napoli di Carmine Cecere.
il ponte dei Gesini sulla strada " Mieze 'e tre Vie " |
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Chi era nella realtà il Brigante della Selva di Chiaiano, è subito svelato :
Era un certo, Alfonso Cerullo, il capo banda di un manipolo di uomini, circa una cinquantina ed in seguito un centinaio, ex soldati del disciolto esercito borbonico, che, non volendo sottostare alle vessatorie condizioni di resa dopo Gaeta, (siglate da Re Francesco II delle Due Sicilie, alias Francischiello ed il Generale Cialdini, per conto del re sabaudo, Vittorio Emanuele II), si dettero alla macchia, altrimenti sarebbero stati rinchiusi nelle galere, sparse in tutto il territorio Italiano, specie in quello piemontese, che erano dei veri lager, come quelli, che divennero famosi, le famigerate “Finestrelle”, dove, che, se non si faceva atto di sottomissione alla sovranità ed alla sudditanza alla casa Savoia, si veniva massacrati senza pietà.
Questa crudeltà era dettata per evitare qualsiasi tentativo di far riorganizzare il disciolto esercito di Francischiello, e per tale motivo furono commessi genocidi ad intere popolazioni meridionali: come dimenticare “ PonteLandolfo e Casalduni il 14 agosto 1861” e tanti altri innumerevoli massacri a popolazioni inermi.
Alfonso Cerullo, nacque nelle fertili campagne di Marano di Napoli nel 1837 da padre contadino, Cerullo Salvatore, e da Angelamaria Napolano, casalinga.
Si arruolò giovanissimo nella Reale Gendarmeria Borbonica a cavallo, che aveva compiti d'ordine pubblico, forza armata della giustizia e vigilanza e sicurezza del territorio, ed all’età di ventisette anni rivestì il grado di caporale, che assolse con perizia e carisma, tanto che dopo la capitolazione di Gaeta, con il suo reparto, che era di stanza nella regione Abruzzi, ripiegò a Cisterna e da lì si diede alla macchia, non volendo sfruttare l’opportunità avuta di continuare il servizio militare nell’esercito di un nuovo Sovrano, di un altro Re.
Tornato nella sua Marano e conosciuto un sostenitore del deposto Regime, un certo Macedonio di Maria, che esercitava il mestiere di sarto e che asseriva che Re, Francesco II, sarebbe ritornato presto al suo posto, si fece convincere da quest’ultimo ad organizzare una rivolta per resistere all’esercito occupante piemontese.
Una prima banda di circa venti uomini a cavallo, il Cerullo la raggruppò fra gli ex soldati sbandati del circondario dei casali del Nord di Napoli, rimasti fedeli al loro giuramento e nostalgici del regno borbonico, e con essa iniziò a depredare i posti della guardia nazionale di Marianella, di Polvica, di Mugnano, prendendo i fucili e abbattendo lo stemma dei Savoia e distruggendo i ritratti di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi.
Per rendere più clamorose le sue sortite, obbligava agli uomini di guardia dei presidi, che sorprendeva di gridare :“ Viva Francesco II e Maria Sofia, i veri reali di Napoli”
Questi inaspettati attacchi alle caserme ed ai presidi del disciolto Reale Corpo dei Carabinieri, che nel 24 gennaio del 1861 si trasformò in Arma dei Carabinieri, dislocati nel territorio, resero necessaria l’istituzione di un tour de fource, di più uomini, costituito dalla Guardia Nazionale in collaborazione con reparti speciali di Bersaglieri e di soldati della Guardia Mobile per setacciare il Nord di Napoli, dove operava la banda Cerullo.
Più che un Brigante, il nostro Alfonso Cerullo, era un autentico partigiano borbonico, tanto che osò sfidare l’esercito piemontese con un manipolo di compagni, innalzando su un albero nel bosco della collina dell’Eremo Camaldolese il Vessillo Gigliato dell’antico Regno, donatogli da alcuni affiliati, che l’avevano requisito ad abili tessitrici mugnanesi, e tanto era grande, che era ben visibile dai paesi sottostanti della collina.
Vessillo gigliato del regno borbonico di Napoli |
Terminate le proficue incursioni nelle varie masserie della zona, si rifugiava nella Selva di Chiaiano, nella famosa Grotta del Brigante, antica cava ben nascosta dalla folta vegetazione, per sfuggire ad un’eventuale cattura e da cui poi ripartiva per altre e nuove scorribande per procacciarsi viveri e vettovagliamenti per la sua banda.
La banda del Cerullo era anche in contatto con altri gruppi di briganti, anch’essi operanti nell’entroterra della Provincia di Napoli, come quella di Crescenzo de Matteo nel aversano, la banda di Salvatore Reppe nella zona di Qualiano Quarto, la banda di Salvatore D’Alterio detto “‘o Squarcione” in quella di Giugliano e tanti altri gruppi e tutti insieme formavano il comitato insurrezionale dell’area nord di Napoli, che aveva come disegno strategico militare, il ritorno, appena possibile, del Re Borbone.
Queste bande Partigiane Borboniche divennero padrone incontrastate del territorio e spaziavano dai Camaldoli al Lago di Patria fino a Soccavo e Pianura e per il numero sempre crescente d'esse, costrinsero a Vittorio Emanuele II, ad ordinare al Generale Cialdini di procedere ad una massiccia repressione.
Si misero taglie sulla testa dei più noti capibanda e così iniziò una vera caccia ai cosiddetti briganti di casa nostra. Scesero in campo circa cinquemila uomini armati per stanarli oltre alle forze locali ed ai carabinieri.
Il nostro eroe, Alfonso Cerullo, fu preso nei pressi della Taverna del Portone, vicino al posto di Dogana al Furlone sulla Strada Santa Maria a Cubito, tradito da un certo Lucchesi Michele, la sera del 28 novembre del 1864.
Interrogato l’indomani, il 29 novembre 1864, dall’Ispettore Federico Sbarri della Questura di Napoli, com'è riportato dallo storico maranese Barberi nel suo libro, il Cerullo “giustificò la sua ribellione, non volendo sottostare al nuovo regime e dichiarò che non si era mai macchiato né lui, né i componenti della sua banda, di nessun crimine, specie ,quello addebitatogli, dell’assassinio del carabiniere Maurizio Gorelli, avvenuto il 16 maggio 1863, che gli era attribuito, dichiarando altre sì che non si era mai scontrato con l’arma, anzi la rispettava, essendo stato lui stesso un gendarme per il passato”.
Con un processo sommario fu richiuso in Castel Capuano e dovette scontare una pena di 25 anni di galera.
Scontata la pena all’età di 53 anni il 29 marzo del 1890 morì a Marano.
Alfonso Cerullo esempio di uomo leale, rispettoso del giuramento fatto al suo Re, fu per più di un secolo dimenticato, e poiché la storia, molto spesso la fanno i vincitori, fu facile per i conquistatori piemontesi (passati alla storia come i liberatori del Regno delle Due Sicilie) decretare il nostro eroe e tanti altri martiri, che si batterono contro la tirannia savoiarda per difendere la loro patria nel rispetto delle proprie idee, dei briganti malfattori, coprendoli d’ignominie
La banda del Cerullo era anche in contatto con altri gruppi di briganti, anch’essi operanti nell’entroterra della Provincia di Napoli, come quella di Crescenzo de Matteo nel aversano, la banda di Salvatore Reppe nella zona di Qualiano Quarto, la banda di Salvatore D’Alterio detto “‘o Squarcione” in quella di Giugliano e tanti altri gruppi e tutti insieme formavano il comitato insurrezionale dell’area nord di Napoli, che aveva come disegno strategico militare, il ritorno, appena possibile, del Re Borbone.
Queste bande Partigiane Borboniche divennero padrone incontrastate del territorio e spaziavano dai Camaldoli al Lago di Patria fino a Soccavo e Pianura e per il numero sempre crescente d'esse, costrinsero a Vittorio Emanuele II, ad ordinare al Generale Cialdini di procedere ad una massiccia repressione.
Si misero taglie sulla testa dei più noti capibanda e così iniziò una vera caccia ai cosiddetti briganti di casa nostra. Scesero in campo circa cinquemila uomini armati per stanarli oltre alle forze locali ed ai carabinieri.
Il nostro eroe, Alfonso Cerullo, fu preso nei pressi della Taverna del Portone, vicino al posto di Dogana al Furlone sulla Strada Santa Maria a Cubito, tradito da un certo Lucchesi Michele, la sera del 28 novembre del 1864.
Interrogato l’indomani, il 29 novembre 1864, dall’Ispettore Federico Sbarri della Questura di Napoli, com'è riportato dallo storico maranese Barberi nel suo libro, il Cerullo “giustificò la sua ribellione, non volendo sottostare al nuovo regime e dichiarò che non si era mai macchiato né lui, né i componenti della sua banda, di nessun crimine, specie ,quello addebitatogli, dell’assassinio del carabiniere Maurizio Gorelli, avvenuto il 16 maggio 1863, che gli era attribuito, dichiarando altre sì che non si era mai scontrato con l’arma, anzi la rispettava, essendo stato lui stesso un gendarme per il passato”.
Con un processo sommario fu richiuso in Castel Capuano e dovette scontare una pena di 25 anni di galera.
Scontata la pena all’età di 53 anni il 29 marzo del 1890 morì a Marano.
Alfonso Cerullo esempio di uomo leale, rispettoso del giuramento fatto al suo Re, fu per più di un secolo dimenticato, e poiché la storia, molto spesso la fanno i vincitori, fu facile per i conquistatori piemontesi (passati alla storia come i liberatori del Regno delle Due Sicilie) decretare il nostro eroe e tanti altri martiri, che si batterono contro la tirannia savoiarda per difendere la loro patria nel rispetto delle proprie idee, dei briganti malfattori, coprendoli d’ignominie
Via fragolara nei pressi del ( ex Monte de' cani) |
Continuerà appena possibile con altri capitoli
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